Segesta

Segesta

Le erbe aromatiche e i pasticcini alle mandorle di Maria.

 

L’insediamento archeologico di Mozia non è molto conosciuto e prima di raccontare la mia escursione sull’isola lo descrivo succintamente:
“Mozia (o anche Mothia, Motya) fu un'antica città fenicia, sita sull'isola di San Pantaleo, nello Stagnone di Marsala. L'isola si trova di fronte alla costa occidentale della Sicilia, tra l'Isola Grande e la terraferma, e appartiene alla Fondazione Whitaker.

Mozia fu probabilmente interessata dalle esplorazioni dei mercanti-navigatori fenici, che si spinsero nel Mar Mediterraneo occidentale, a partire dalla fine del XII secolo a.C.: dovette rappresentare un punto d'approdo e una base commerciale morfologicamente molto simile alla città fenicia di Tiro. Il nome antico in fenicio era Mtw, Mtw o Hmtw, come risulta dalle legende monetali; il nome riportato in greco, Motye, Μοτύη, è citato anche da Tucidide[1] e da Diodoro Siculo[2]. Intorno alla metà dell'VIII secolo a.C., con l'inizio della colonizzazione greca in Sicilia, Tucidide riporta che i Fenici si ritirarono nella parte occidentale dell'isola, più esattamente nelle tre città di loro fondazione: Mozia, Solunto e Palermo. Archeologicamente è testimoniato un insediamento della fine dell'VIII secolo a.C., preceduto da una fase protostorica sporadica e alquanto modesta. Le fortificazioni che circondano l'isola possono essere forse collegate alle spedizioni greche in Sicilia occidentale di Pentatlo e Dorieo nel VI secolo a.C.
Nel 397 a.C. Dionisio di Siracusa prese e distrusse la città all'inizio della sua campagna di conquista delle città elime e puniche della Sicilia occidentale; l'anno successivo Mozia venne ripresa dai Cartaginesi, ma perse d’importanza in conseguenza della fondazione di Lilibeo. Dopo la battaglia delle Isole Egadi nel 241 a.C. tutta la Sicilia passò sotto il dominio romano, ad eccezione di Siracusa: Mozia doveva essere quasi del tutto abbandonata, dal momento che vi si sono rinvenute solo pochissime tracce di nuova frequentazione, generalmente singole ville di epoca ellenistica o romana.”

La magia dell’isoletta è proprio nella mancanza di evidenti edifici monumentali, templi, anfiteatri, colonnati, ma unicamente nei pochi scavi effettuati negli anni venti del novecento (la Porta nord, il Santuario del Cappiddazzu, la necropoli. la casa dei mosaici, le casermette) e nei reperti custoditi nella villa – museo che la figlia del filantropo Joseph Whitaker, che acquistò l’isola, fece costruire in memoria del padre e nel quale sono ben conservati.
Nel museo inoltre sono conservati altri reperti e arredi funebri, trovati nelle necropoli di Birgi e Lilibeo, a nord e a sud dello Stagnone.

Passeggiando tra i cespugli di oleandro fioriti, gli ulivi ancora carichi di frutti e il profumo del rosmarino, tra i filari della vite ancora coltivata (si produce il Grillo, vino bianco), si può lasciar correre la fantasia e immaginare quanto prosperosa fosse duemila anni orsono la popolazione che la abitava. Gente abituata ai viaggi e al commercio in tutta l’area mediterranea (ne fa fede le statuette di origine egizia conservate nel museo) e la grandezza della città difesa da possenti mura (ci si rende conto osservando le dimensioni dei blocchi squadrati delle fondamenta) che la difendevano.
Ciononostante non fu sufficiente a evitare che Cartaginesi prima e Dionisio, il tiranno di Siracusa, poi ne facessero terra bruciata. Infatti, la quasi totale emigrazione dei superstiti che fondarono Lilibeo, svuotò quasi completamente l’isola di San Pantaleo tanto da sparire dalle vicende storiche della Sicilia.

Tornando alla nostra escursione, dopo aver parcheggiato in prossimità dell’imbarcadero, saliamo a bordo di una barca a motore e con altri turisti, la maggior parte stranieri, usciamo da un canale costeggiato da un mulino a vento ben restaurato e ci dirigiamo a Mozia.

 
 
 
 
L’approdo e accanto alla villa – museo che visitiamo immediatamente. L’interno è costituito da diverse sale con teche che espongono gli oggetti che ho descritto in precedenza. Poi ci avviamo nei sentieri che s’inoltrano nell’isoletta. Tra uno scavo e l’altro raggiungiamo la Porta nord che conserva le fondamenta delle possenti mura difensive e dalla quale partiva una strada lastricata che la collegava alla terraferma.
 
 

Alcuni tratti di questa strada sono visibili, in condizioni favorevoli di tempo (luce) e di mare, pochi metri sotto lo specchio dell’acqua.
 

La passeggiata dura parecchio e, fortunatamente, ancora con un gradevole tempo soleggiato che ci accompagna.

Torniamo all’imbarcadero e dopo pochi minuti arriva la barca a motore per riportarci sulla costa. Casualmente conosciamo una coppia che proviene da Bruxelles. Il marito, mio coscritto, è originario di Endine Gaiano (Bergamo) mentre la moglie è belga. Con il coscritto ricordiamo gli avvenimenti di fine guerra e ascolto i suoi ricordi riguardanti il transito di una colonna tedesca in ritirata assaltata dai partigiani all’inizio del paese.
Sua moglie spiega a Gabriella, in ottimo italiano, la sua attività nella capitale belga: possiede un B&B che, ovviamente, ci consiglia in caso di una nostra eventuale visita.

Ma incombono le tredici, lo stomaco inizia a farsi sentire, quindi salutiamo e partiamo alla ricerca di un ristorante poiché la nostra meta finale è la visita a una conoscente che risiede a Tabaccaro, a pochi chilometri da Marsala, con la quale abbiamo appuntamento alle quindici.
Troviamo un ristorante tunisino e, dopo essere entrati, ci rendiamo conto di essere gli unici clienti. Poiché il ristoratore afferma di saper cucinare alla siciliana azzardo a ordinare un piatto di Busiati cu l'agghia pistata. Senza lode e senza infamia, ma la fame ha il sopravvento e mangio.

Terminato velocemente il pranzo (?), e dopo alcune indicazioni telefoniche, ci dirigiamo verso l’abitazione della conoscente.
Era stata per molti anni nostra collaboratrice familiare ma, sopratutto assistette la mamma di mia moglie durante il periodo di allettamento sino al giorno della scomparsa. Aveva una disponibilità eccezionale e tutta la nostra fiducia. In seguito, lei di origini siciliane, si trasferì con il marito nel paese d’origine (Tabaccaro, vicino a Marsala) ed eravamo rimasti periodicamente in contatto con la promessa che nel caso fossimo andati in Sicilia non avremmo mancato a una nostra visita.

Ci accoglie con la nota ospitalità siciliana e prima di ripartire ci riempie di doni: erbe aromatiche, capperi sotto sale, olive sott’olio e una montagna di pasticcini alle mandorle, ma soprattutto con la gioia che le vediamo stampata sul viso per aver mantenuto la promessa.
Ci avviamo verso il nostro B&B con un misto di soddisfazione per aver completato il programma settimanale previsto e, contemporaneamente, con un poco di nostalgia al pensiero che l’indomani dovremo ripartire per Bergamo.

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